GONDRANO e BERTA: la purezza della fede

di Umberto Martuscelli per Fiseveneto.com 

Quando lo zoccolo fu guarito, Gondrano riprese a lavorare più che mai. Veramente gli animali faticavano come schiavi quell’anno. (…) Ma Gondrano non esitò mai. In nulla che facesse o dicesse vi era segno che la sua forza non fosse qual era sempre stata. Solo il suo aspetto era un poco mutato: il suo mantello non era più così lucente e i suoi grandi fianchi sembravano essersi contratti. Gli altri dicevano: «Gondrano si rimetterà quando a primavera spunterà l’erba». Ma venne la primavera e Gondrano non ingrassò affatto. Talvolta sul pendio che conduceva in cima alla cava, quando tendeva i muscoli al peso di un gran masso, pareva che nulla lo tenesse in piedi se non la volontà di andare avanti. Allora si vedevano le sue labbra formare le parole: «Lavorerò di più». Non gli restava più voce. Ancora una volta Berta e Benjamin lo esortarono ad aver cura della sua salute, ma Gondrano non dava ascolto. Il suo dodicesimo compleanno si avvicinava. Non gli importava di qualunque cosa accadesse, purché una buona riserva di pietre fosse accumulata presso il mulino.

In una tarda sera d’estate improvvisa voce corse per la fattoria che qualcosa era accaduto a Gondrano. Era andato solo a trascinare un carico di pietre al mulino. E purtroppo la voce era vera. Pochi istanti dopo due piccioni vennero in rapido volo con la notizia: «Gondrano è caduto! È sdraiato sul fianco e non riesce a rialzarsi!». Mezza fattoria corse all’altura ove sorgeva il mulino. Là giaceva Gondrano tra le stanghe del carro, il collo allungato, incapace persino di sollevare la testa. L’occhio era vitreo e i fianchi coperti di sudore. Un sottile filo di sangue gli colava dalla bocca.

Berta gli si inginocchiò a fianco: «Gondrano», gridò, «come stai?».

«Sono i polmoni», disse Gondrano con voce flebile. «Non importa. Credo che potrete finire il mulino senza di me. C’è una buona scorta di pietre di riserva. In ogni caso, avevo solo un mese davanti a me. A dire il vero aspettavo con grande desiderio il momento del mio ritiro. E forse, poiché anche Benjamin sta diventando vecchio, gli permetteranno di ritirarsi con me e tenermi compagnia».

«Bisogna cercare subito aiuto», disse Berta. «Che qualcuno corra ad avvertire Clarinetto di quanto è successo».

Tutti gli altri animali corsero immediatamente alla casa colonica per dare a Clarinetto la notizia. Solo Berta rimase, e Benjamin, che si coricò a fianco di Gondrano e, senza parlare, gli allontanava le mosche con la lunga coda.

Dopo circa un quarto d’ora Clarinetto apparve, pieno di simpatia e di sollecitudine. Egli disse che il compagno Napoleon aveva appreso con il più profondo dolore la disgrazia toccata a uno dei più leali lavoratori della fattoria e che stava già combinando di mandare Gondrano in cura all’ospedale di Willingdon. A questa notizia un senso di inquietudine invase gli animali. Salvo Mollie e Palla di Neve, nessun animale aveva mai lasciato la fattoria e il pensiero del loro compagno ammalato nelle mani di esseri umani li turbava. Ma Clarinetto presto li convinse che il chirurgo veterinario di Willingdon avrebbe potuto curare Gondrano assai meglio di quanto non era possibile fare alla fattoria. E mezz’ora dopo, quando si era un poco ripreso, Gondrano fu fatto alzare in piedi e accompagnato alla stalla ove Berta e Benjamin gli avevano preparato un buon letto di paglia.

Durante i due giorni successivi Gondrano rimase nella stalla. I maiali gli avevano mandato una grande bottiglia di una medicina rosa che avevano trovato nell’armadietto farmaceutico della stanza da bagno, e Berta gliela somministrava due volte al giorno, dopo i pasti. La sera si stendeva vicino a lui e gli parlava, mentre Benjamin gli teneva lontano le mosche. Gondrano diceva di non essere spiacente di quanto era avvenuto. Se guariva bene poteva sperare di vivere altri tre anni e già pregustava i giorni tranquilli che avrebbe passato nell’angolo del gran pascolo. Sarebbe stata la prima volta che avrebbe avuto tempo per studiare e migliorare la propria mente. Era sua intenzione, diceva, dedicare il resto della vita a imparare le rimanenti ventidue lettere dell’alfabeto.

Tuttavia Benjamin e Berta potevano rimanere con lui solo dopo l’orario di lavoro, e fu a mezzo del giorno che venne il furgone a portarlo via. Gli animali erano tutti al lavoro, intenti a sarchiare le rape sotto la sorveglianza dei maiali, quando con stupore videro Benjamin venire di galoppo nella direzione dei fabbricati ragliando con quanta voce aveva. Era la prima volta che vedevano Benjamin eccitato, la prima volta che lo vedevano galoppare. «Presto, presto», gridava, «venite subito! Stanno portando via Gondrano!».

Senza aspettare ordini dal porco, gli animali interruppero il lavoro e si precipitarono verso i fabbricati. Nel cortile sostava un gran furgone chiuso, tirato da due cavalli, un furgone con iscrizioni sui fianchi e un uomo dall’aria astuta, con in testa un berretto a visiera, seduto a cassetta. E il posto di Gondrano nella stalla era vuoto.

Gli animali si affollarono intorno al furgone: «Ciao Gondrano», gridarono in coro, «arrivederci!».

«Pazzi, pazzi!», urlò Benjamin saltando attorno a loro e battendo la terra con gli zoccoli. «Pazzi… ! Non vedete cosa c’è scritto sui fianchi del furgone?».

Gli animali sostarono e vi fu un mormorio. Muriel cominciò a compitare le parole, ma Benjamin la spinse da parte e fra un silenzio mortale lesse: «Alfred Simmons, Macelleria Equina e Fabbrica di Colla, Willingdon. Negoziante di cuoio e d’ossa. Forniture per canili… Capite quello che significa? Portano Gondrano al macello!».

Un grido d’orrore uscì dal petto di tutti gli animali. In quel momento l’uomo a cassetta frustò i suoi cavalli e il furgone uscì dal cortile a buon trotto. Tutti gli animali lo seguirono gridando a gran voce. Berta forzò l’andatura per portarsi innanzi. Il furgone acquistava velocità. Berta tentò di muovere al galoppo le sue pesanti membra: «Gondrano», gridò, «Gondrano! Gondrano! Gondrano!», e proprio in quel momento, come se sentisse il frastuono esterno, il muso di Gondrano, con la striscia bianca che gli scendeva lungo il naso, apparve alla finestrella sul retro del furgone.

«Gondrano», gridò Berta con voce terribile, «Gondrano scendi! Scendi, presto! Ti portano alla morte!».

Tutti gli animali raccolsero il grido: «Scendi, Gondrano, scendi!». Ma il furgone andava sempre più veloce, portandolo via con sé. Non era certo che Gondrano avesse capito ciò che aveva detto Berta. Ma poco dopo il suo muso disparve dalla finestrella e il rumore di un tremendo scalpitare si udì nell’interno del furgone. Cercava a calci una via d’uscita. C’era stato un tempo in cui pochi colpi di zoccolo di Gondrano avrebbero fatto a pezzi il furgone. Ma ahimè, la forza lo aveva abbandonato e in pochi istanti i colpi si fecero più deboli finché cessarono del tutto. (…) Gondrano non fu visto mai più.

 

*****

 

Questo è un brano tratto dal romanzo “La fattoria degli animali” di George Orwell. Un capolavoro della letteratura del secolo scorso, pubblicato nel 1945 e in Italia nel 1947. È un romanzo di durissima critica politica e sociale, e lo si dice a vantaggio di chi non lo abbia già letto o studiato: guidati dai maiali, gli animali di una fattoria si ribellano al fattore e combattono affinché la fattoria possa trasformarsi in una società giusta, senza sfruttati e sfruttatori. La rivoluzione riesce: ma ben presto i maiali impongono un regime tirannico e dittatoriale guidati dal furbo e accentratore e spietato Napoleon, approfittando della purezza d’animo dei compagni (di un tempo) e della cieca fiducia che loro ripongono in chi li aveva guidati alla vittoria. George Orwell praticamente racconta la rivoluzione sovietica e il fallimento degli ideali che l’avevano portata al successo: e questa naturalmente è una lettura del romanzo che potremmo definire storicamente oggettiva. Ce n’è anche una soggettiva, però, ed è quella di tutti noi amanti dei cavalli. Perché Gondrano e Berta sono due cavalli. Due cavalli grandi e forti, due cavalli da lavoro, da tiro, cavalli capaci di smuovere e trainare pesi enormi. Due cavalli semplici, che non si fanno troppe domande: ripongono tutta la loro fiducia nei maiali e in Napoleon… «Napoleon ha sempre ragione», dice Gondrano, alternando questo pensiero con la frase che lo caratterizza maggiormente: «Lavorerò di più». Di più per il bene comune, di più per gli altri compagni, di più perché se lui lavora di più il mulino si finisce prima. Gondrano e Berta sono ingenui (scendi, urla Berta a un Gondrano ormai prigioniero e condannato), forse anche poco intelligenti – se l’intelligenza è quella dei maiali – però sono lineari, solari, trasparenti, puri, onesti, altruisti, disinteressati, sinceri. Quello dei colpi che Gondrano scaglia contro le pareti del furgone che lo porta al macello è un suono tremendo, terribile, angosciante, che ci trapana il cervello: Gondrano si ribella non tanto al veicolo che lo conduce a morte, quanto piuttosto al vigliacco e ignobile tradimento di colui al quale aveva donato tutto sé stesso, incondizionatamente, nel nome di un ideale comune. Proprio come fanno tutti i cavalli.

Questo brano della “Fattoria degli animali” è meraviglioso perché provoca un dolore indicibile: ci raggiunge davvero dentro il nostro cuore e nella nostra mente, e che il simbolo scelto da George Orwell per rappresentare tutto questo siano due cavalli ha un significato enorme per tutti, ma per noi appartenenti alla comunità equestre, al mondo dello sport, al mondo dei cavalli… beh, per noi di più. E volendo circoscrivere ulteriormente il campo, potremmo anche dire che il fatto che la famiglia Tiarca abbia voluto intitolare il proprio centro ippico proprio a Gondrano e Berta rende tutti noi veneti molto orgogliosi… I cavalli si fidano di noi: e noi non dobbiamo tradirli. Mai.

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