MATTEO BARCA E L’ACUTO DI UNA VITA

 

 

 

di Umberto Martuscelli per Fiseveneto.com

2020.02.01 – Sta per iniziare il Gran Premio. Atmosfera di grande tensione e di fremente attesa. Tribune stipate fino all’inverosimile: perché si affronteranno i migliori del mondo in uno spettacolo straordinario. Il campo gara che fino a qualche minuto fa era affollato di amazzoni e di cavalieri e di trattori e di personale di servizio adesso è completamente vuoto: gli ostacoli quindi risaltano più che mai nella loro colorata bellezza e soprattutto assumono il loro pieno significato di sfida estrema. Il momento è quello in cui ciò che si attende sta per succedere ma non succede ancora…

Adesso però c’è un uomo in campo. Solo lui. Fermo in piedi al centro. La sua figura risalta con evidenza perché nel chiarore abbacinante della sala e nella lucentezza scintillante degli ostacoli lui è vestito di nero. Completamente di nero. Dal nulla la musica si espande in questo enorme spazio come una specie di allagamento sonoro: e nella musica per magia entra la voce dell’uomo vestito di nero… una voce chiara, potente, squillante che canta… canta le celebri strofe del Nessun Dorma allargando le braccia, la Turandot, le linee finali con l’acuto travolgente… tramontate stelle, all’alba vincerò… vincerò… vincerò…  una scossa potente che investe tutto e tutti con l’impeto dei sentimenti che solo la musica sa smuovere…

Matteo Barca – 44 anni – è una di quelle persone che raccontano cose straordinarie presentandole nel racconto come se fossero assolutamente normali… In più in rapida successione una dopo l’altra, e usando anche un modo di parlare rapido e veloce che costringe il suo interlocutore a un’attenzione massima senza molti spazi per riflettere, dovendo mantenere tutta la concentrazione nel seguire un discorso che accumula particolari e dettagli e immagini a ritmo serrato. Solo poi, dopo, più tardi, quando tutto è fermo, arriva il pensiero quasi sorprendente: ma questa è una storia pazzesca!
«Ho iniziato a montare a cavallo da piccolo a Verona, alla Società Ippica Veronese, avevo direi undici anni più o meno, quindi ormai trentatré anni fa… Come tutti i ragazzini ho fatto le prime garette facili, poi ho trovato un bravo cavallo con il quale ho cominciato ad avere qualche risultato e così è aumentata la voglia».

Le piaceva la gara?
«Sì, certo, la mia era passione per i cavalli, ma anche le gare servono per aumentare l’entusiasmo. Il mio babbo è stato bravo, mi ha preso un altro cavallino e così con due cavalli siamo andati avanti».

Seguito tecnicamente da chi?
«Prima di tutto da Luciano Campagnaro che è stato il mio istruttore per tanto tempo, e poi anche da Sante Bertolla. Luciano ha cambiato la mia visione dell’equitazione: lui aveva una scuderia di commercio e quindi ogni cavallo che arrivava io lo provavo e lo montavo, un’esperienza molto formativa per un ragazzo giovane. Poi quelli erano gli anni in cui lui faceva concorsi di altissimo livello, quindi io lo seguivo, guardavo, ascoltavo, vedevo i più grandi cavalli e cavalieri di allora, Pierre Durand con Jappeloup, John Whitaker con Milton… ».

Poi è arrivato anche il suo cavallo importante…
«Sì, nell’anno dei miei diciotto ho avuto la fortuna di trovare davvero un grande cavallo, Debate, lo montava Marco Porro, e con lui ho fatto il Campionato d’Europa juniores nel 1993 in Austria, abbiamo conquistato il 4° posto, è stata una bellissima esperienza».

C’è stata però un’interruzione poco dopo…
«Eh sì, avevo ventidue anni, avevo anche cominciato a fare l’istruttore cosa che mi aveva fatto un po’ perdere la continuità come cavaliere… ma soprattutto sono successe due cose, due disgrazie che mi hanno turbato talmente tanto… ero disgustato dal dolore provato… ».

Con i suoi cavalli?
«Sì. Con i miei due cavalli. Morti entrambi a breve distanza di tempo uno dall’altro. Uno si è rotto una gamba prendendo un calcio da un altro cavallo, e l’altro facendosi una frattura da solo in paddock mettendo male un piede… e non c’è stato nulla da fare né in un caso né nell’altro. Troppo dolore… ho smesso di montare e di avere rapporti con i cavalli alla fine di quell’estate».

Si apre così la seconda fase della sua vita.
«Mio padre vedeva che io stavo male, che ero parecchio giù. Così a un certo punto mi ha proposto di aiutarlo nel nostro ristorante, il ristorante della nostra famiglia da sempre, il Tre Marchetti… in vicolo Tre Marchetti a Verona… Marchetto era il nome che nel Cinquecento si dava alle monete della Repubblica di Venezia, e vicino all’Arena c’era una locanda in cui si poteva mangiare spendendo appunto tre marchetti».

E lei cosa ha deciso di fare?
«Io avrei voluto fare tutt’altro, ma in quel momento di confusione ho detto a mio padre ok, piuttosto che stare a casa a far niente vengo a darti una mano, magari sto in cucina, lavo i piatti… qualcosa farò, sarò proprio io l’ultimo degli stupidi… no?».

Certo no… !
«Mio papà è molto amico di Placido Domingo e del suo manager, perché loro venivano sempre a mangiare da noi finite le opere all’Arena. Premetto: per me la lirica in quel momento era la cosa più lontana che ci fosse al mondo, io cantavo solo con il karaoke, figuriamoci… Zero contatti, nessun interesse, proprio altri mondi. Comunque, un giorno mio padre mi dice che Placido Domingo ci aveva invitato al concerto di Natale a Vienna… Per me lui e tutti gli altri cantanti erano perfetti sconosciuti, li vedevo come dei simpatici vecchietti che urlavano… Però dico a me stesso: perché no? Andiamo… ».

E… ?
«Una folgorazione. Sono rimasto sconvolto. Queste arie stupende, la musica, l’orchestra, il direttore, il coro… vuoi che fosse il Natale, vuoi che fosse l’atmosfera di Vienna… ho detto a me stesso, se ce la fanno loro devo farcela anche io. A tutti i costi. Era il 1998, avevo ventitré anni».

Il potere della musica!
«Esatto. Una specie di innamoramento folgorante. Il manager di Placido Domingo a un certo punto mi dice guarda, se vuoi puoi fare il direttore di palcoscenico: una figura non proprio fondamentale, è la persona che sta di fianco al palcoscenico e dà i momenti di entrata ai cantanti, ma ovviamente sapevo benissimo di essere totalmente inutile davanti a Placido Domingo nel dirgli Maestro adesso deve entrare qui… sia lui sia tutti gli altri sanno benissimo cosa fare, quando farlo e come farlo. Però io stavo lì, vicinissimo a loro, li sentivo, vedevo le loro espressioni, i loro gesti, i momenti di difficoltà, i momenti di godimento… per me era una cosa incredibile, fantastica… ».

Ma tra lo stare di fianco al palcoscenico e il cantare sul palcoscenico c’è una certa differenza…
«Eccome… ! Sta di fatto che al termine di quel concerto a Vienna siamo andati al ricevimento: a un certo punto Placido Domingo si è messo al pianoforte e il suo manager, che è romagnolo, ha cominciato a cantare Romagna Mia… e io, con una faccia da schiaffi pazzesca, mi sono messo di fianco a lui a cantare quell’unica canzone che conoscevo».

Cioè: Placido Domingo suonava il pianoforte e lei… ha cantato Romagna Mia?
«Già… sì! E alla fine lui si è alzato, mi è venuto vicino e mi ha detto: ma sai che tu hai una bella voce da tenore? Tu devi studiare… ».

Questa è una scena da film!
«E io mi sono detto: torno a casa e mi metto a studiare sul serio. Da quel momento è iniziata la mia malattia d’amore per la musica e per la lirica. E non sono ancora guarito… !».

Una svolta nella sua vita, praticamente…
«Sì, un momento prima ero uno sportivo, una persona che comunque se ne stava sempre all’aria aperta e sempre a contatto con i cavalli, un momento dopo sono diventato uno rinchiuso in una stanza con un pianoforte per studiare, studiare, studiare… È difficile, è un salto molto complicato, io non vengo da una famiglia di musicisti, ovviamente non avevo mai studiato la musica… per cui ho dovuto concentrare tutto negli anni di studio al Conservatorio e in Accademia».

Cominciando da zero.
«Assolutamente da zero. E fare il terzo anno di pianoforte non è per niente facile per un ragazzo di ventiquattro anni che mette la mano su una tastiera per la prima volta… Però io ho avuto anche una fortuna, cioè quella di avere una voce molto facile nella zona acuta che è quella solitamente più complicata per i tenori, e allora nelle Accademie mi prendevano subito anche perché di tenori giovani ce ne sono pochissimi. Ho fatto delle esperienze meravigliose, straordinarie… con Raina Kabaivanska, con Leo Nucci, con il Maestro La Scola, con tanti grandi cantanti che mi hanno aiutato moltissimo… La prima volta che ho cantato un’opera non la dimenticherò mai: a Parigi, La Bohème, la prima volta in assoluto che cantavo La Bohème, davanti a cinquantamila persone… Mi hanno chiamato all’ultimo istante perché stava male il tenore che avrebbe dovuto cantare… È stato un momento molto difficile ma anche stupendo, molto forte, indimenticabile».

Quindi la sua è stata un’attività di vero e proprio professionista?
«Sì, per dieci anni, sì».

Quanti concerti faceva mediamente?
«Beh, di concerti se ne possono fare anche uno ogni due giorni. Di opere ne facevo quattro o cinque al mese. Non di più perché l’opera… cioè, più che altro le prove portano via tanto tempo e tanta energia. La parte più difficile di un’opera non è rappresentarla, bensì provarla… ti fermi, ripeti, rifai, ricanta, non spostarti così, mettiti così, canta storto, canta dritto, canta sdraiato, canta in ginocchio… Il pubblico vede un prodotto finale che è frutto di anni e anni di lavoro, di tecnica, di sudore, di sangue… ».

E dopo questi dieci anni?
«Dopo questi dieci anni mio padre a un certo punto mi ha detto ascolta, cosa facciamo con i ristoranti? Perché nel frattempo lui ne aveva presi degli altri, mio fratello aveva aperto un pub… insomma, l’attività era importante, c’era bisogno di aiuto. Io in quel momento ero appena rientrato da una tournée di cinquanta giorni in Giappone… in più mi rendevo bene conto che le mie tre bambine soffrivano enormemente a ogni mia partenza: perché si erano attaccate tantissimo a me, io stavo sempre a casa a studiare mentre invece mia moglie fuori tutto il giorno per lavoro, quindi loro erano abituate ad avermi sempre lì, presente… Insomma, mi sono trovato davanti a una situazione di questo tipo: da una parte la certezza di un’attività commerciale che avrebbe fatto stare bene la mia famiglia, dall’altra la fantasia di poter diventare un grande cantante… Così ho fatto due conti e alla fine mi sono detto ok, canterò ancora solo per passione o come lavoro collaterale, del resto la carriera del cantante lirico è molto breve, quelli longevi sono davvero pochi… e poi, quanti sognano e ci provano senza riuscire? Quindi ho deciso di dedicarmi al ristorante. Poi è successo anche che mio papà ha avuto un brutto incidente e allora ho necessariamente dovuto concentrarmi solo sul ristorante».

Ma il canto rimane parte della sua vita, inevitabilmente, no?
«Io ho la fortuna di avere un ristorante che a una certa ora della sera diventa un teatro. Tutte le sere d’estate i cantanti alla fine dell’opera vengono da me a mezzanotte, mezzanotte e mezza, e sono tutte persone con le quali io ho cantato, amici, persone che mi conoscono tramite amici, e vengono… e cantiamo tutta la notte fino alle quattro del mattino… ! Poi io mi prendo anche qualche impegno extra per andare a cantare in giro, mi hanno chiesto di fare una Tosca a Spalato e ci andrò… ».

Le passioni non muoiono mai: infatti anche i cavalli sono ritornati nella sua vita… Come è successo?
«Un mio vecchio allievo è venuto a fare il pranzo di matrimonio da noi, e il giorno in cui ci siamo trovati per accordarci mi fa: domani vado a vedere un cavallo, vieni con me? Ma no, figurati, devo lavorare… No, dai, vieni, quattro occhi vedono meglio di due, mi dai una mano… Morale, lui è tornato senza cavallo, io invece ne ho comperato uno così, seduta stante, immediatamente, il giorno stesso… ».

E quindi…
«E quindi da lì è ricominciata la malattia. Adesso la mattina di ogni giorno la trascorro con i cavalli, in un centro ippico qui a Verona, poi tutto il resto della giornata la dedico al lavoro del ristorante. Anzi, ristoranti: adesso ne ho due miei più un bed and breakfast, tutto questo lo gestisco io personalmente, mio papà ormai si è ritirato, viene a fare un po’ di confusione, si diverte, è bravo… bravissimo, ci aiuta, mi sostituisce nei giorni in cui io vado a fare qualche concorso con i miei cavalli, qualche volta vado anche a fare dei concerti… ».

Quanti concorsi riesce a fare in un anno?
«Una decina. Ma li concentro nei periodi invernali perché da giugno a tutto settembre, che sarebbe il periodo più bello per andare in concorso, in realtà non posso muovermi da Verona, tra l’altro con orari pesanti, finisco alle cinque del mattino, di certo non potrei essere in sella alle sette… Quindi allungo la stagione andando spesso in Spagna in ottobre e novembre e poi febbraio».

Ma poi cavalli e musica si sono uniti, in un certo senso, perché lei spesso canta nei concorsi…
«È successo quasi per scherzo. Un anno è venuto a mangiare da me Jan Tops (il fondatore e presidente del Global Champions Tour, n.d.r.) e poi mi ha sentito cantare… È rimasto colpito e mi ha detto tu devi cantare per il Global… In effetti io avevo già fatto in Fieracavalli a Verona l’anno prima un piccolo intervento a inizio Gran Premio, che poi si è ripetuto anche nel 2019, e… insomma, spero sia una cosa gradita, spero che piaccia».

Cavalli, musica, ristorante: tre grandi passioni…
«Sì certo, sono le passioni della mia vita, però io non sono uno molto costante… O per meglio dire, io sono una specie di Bignami, ecco… ».

Di… Bignami?
«Sì, faccio un po’ di tutto. Non tutto bene, ma un po’ di tutto… ».

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